Fino dall’adolescenza tu hai molto amato e molto letto poesie e
addirittura interi poemi, anche di autori "minori". Hai anche scritto
numerose composizioni poetiche. Poi, ad un certo momento, la poesia, almeno
quella scritta, in te tacque e prese forma e colori la pittura. Come avvenne
questo?
La pittura era stata un po’ il mio sogno da ragazzo, ma dipingere era
costoso e richiedeva tempo e spazio. Dopo la fine della rivista Marsia, nel
1960, e un po’ anche in seguito all'incontro e all'amicizia con Alfredo
Giuliani e i poeti della neo-avanguardia, entrai in crisi con la parola; smisi
di scrivere poesie, mi limitai a tradurne. Ma gli stimoli creativi non per
questo cessarono e il ricorso ai pennelli e ai colori fu conseguente.
Tuttavia i rapporti con la letteratura, e la poesia in primis,
rimasero stretti ed evidenti anche nel periodo della tua attività pittorica…
Sì, certo. La mia prima mostra personale, alla Libreria Einaudi in via
Veneto, fu un “Omaggio a Dylan Thomas” e fu del maggio 1966, l’anno dopo
l’uscita della mia traduzione. Anche la seconda mostra, nel ‘70, mista di
dipinti su tela e monotipi su carta, tenuta sempre a Roma alla Galleria “Il
Segno” di Angelica De Chirico non era esente da suggestioni extra-pittoriche in
senso stretto. Lo dichiarai nell’auto-presentazione che scrissi in quella
occasione e che, per quanto riguarda i monotipi, fu accompagnata da uno scritto
di Hans Richter .
Facciamo un passo indietro. Vuoi raccontarci altro a proposito della tua
primissima iniziazione allo studio della pittura che, mi pare, fu alle origini
altrettanto precoce di quella allo studio letterario, se non di più.
Durante la scuola media, il preside della scuola, che era un pittore, andato
in pensione, scelse i più bravi in disegno e due volte la settimana ci dava nel
pomeriggio lezioni di pittura. Lì imparai l'abc, la grammatica del disegno e
della pittura, come si impastano i colori, come si prepara una tela, e come si
dipinge. Ci faceva copiare dal vero, ci iniziò alla pittura a olio, ci faceva
riprodurre fotografie, cartoline, paesaggi... Poi, nel primo dopoguerra,
frequentai anche un corso di nudo al Circolo Artistico Internazionale di Via
Margutta. Ma i tempi erano cambiati e l’astrattismo imperava imponendo altri
modi. Ricordo che ricominciai usando pennelli cinesi su grandi fogli con
inchiostri di china colorati. L'ultima poesia la scrissi per il mio
quarantesimo compleanno e dopo allora niente più, per vent’anni. La pittura
d’altronde mi dava soddisfazioni, era un vero lavoro, feci altre mostre personali,
partecipai a collettive, ebbi a Livorno un gallerista, Giraldi, che mi
acquistava due quadri al mese. Mi esprimevo con grande libertà; ai monotipi
seguì un periodo di pittura geometrizzante incentrato sull’indagine della
casualità, quindi quello dei “fragmenta labyrinthi”; infine, abbandonate tele e
pennelli, le mie due ultime due personali, a Bologna e a Bari, furono di
immagini fotografiche allegoriche. La letteratura, cacciata dalla porta,
rientrava dalla finestra…
E gli altri artisti, gli altri pittori? Chi ti ha maggiormente
influenzato, in chi ti sei riconosciuto? Chi frequentavi? Ti fa piacere
ricordarcelo?
Gli anni sessanta, come sa chi li ha vissuti, furono a Roma anni di grande
fermento intellettuale e, fra gli artisti, di grande comunicativa e apertura.
Mio amico e per certi aspetti maestro fu Piero Dorazio, ci vedevamo
spessissimo, prima che si trasferisse a Todi, nel suo studio alla Valchetta
Cartoni, o, insieme ad altri, Perilli, Turcato, nella mitica stamperia di Renzo
e Flavia Romero, a due passi da Piazza del Popolo. Ma prima ancora, negli anni
’50, avevo stretti legami con Armando Buratti e il gruppo di “Portonaccio”. Gli
anni passano veloci. Quanto a influssi veri e propri, ma parlerei piuttosto di
suggestioni, credo che fossero i grandi del passato, Klee, in primo luogo, e
Kandinskj, ma in qualche modo anche Mondrian e Malevic a darmene di più.
Tuttavia, anche per il doppio binario con la letteratura e la poesia, il mio fu
un percorso tutto sommato piuttosto autonomo e solitario.
Quanto al tuo nome in pittura: perché Ario, anziché Ariodante Marianni
per intero?
Forse per rimarcare la diversità dal lavoro letterario. Ario è il nome con
cui mi chiamano gli amici. Cominciai a usarlo nella seconda mostra personale
alla galleria “Il segno” di Roma, mostra di transizione perché comprendeva sia
monotipi che tele con composizioni geometrizzanti ricavate col metodo del “coup
de dès”, come spiegavo nell’autopresentazione. Aggiungo che da un “quadro –
madre” così composto ritagliavo zone che diventavano a loro volta composizioni
autonome.
Recentemente, dopo tanti anni di “ritiro” letterario, sono state
riproposti in mostra i tuoi monotipi. Come li hai rivisti? Che significato
hanno assunto ora per te?
E’ alla Fondazione Marazza di Borgomanero e anche a te che devo questa
“riesumazione”, e, in quanto sua artefice, hai potuto davvero toccare con mano
con che entusiasmo io ne abbia seguito le fasi e l’attuazione. E’ stata la
riscoperta di un io fecondo e dimenticato. Con tutto il distacco che dà il
lungo tempo passato, diciamo che mi sono guardato indietro e mi sono
compiaciuto.
PITTURA E POESIA Intervista di Eleonora Bellini ad Ariodante Marianni da Pagina Picta, 2005