martedì 11 novembre 2014

PITTURA E POESIA, intervista ad Ariodante Marianni


Fino dall’adolescenza tu hai molto amato e molto letto poesie e addirittura interi poemi, anche di autori "minori". Hai anche scritto numerose composizioni poetiche. Poi, ad un certo momento, la poesia, almeno quella scritta, in te tacque e prese forma e colori la pittura. Come avvenne questo?  
La pittura era stata un po’ il mio sogno da ragazzo, ma dipingere era costoso e richiedeva tempo e spazio. Dopo la fine della rivista Marsia, nel 1960, e un po’ anche in seguito all'incontro e all'amicizia con Alfredo Giuliani e i poeti della neo-avanguardia, entrai in crisi con la parola; smisi di scrivere poesie, mi limitai a tradurne. Ma gli stimoli creativi non per questo cessarono e il ricorso ai pennelli e ai colori fu conseguente.

Tuttavia i rapporti con la letteratura, e la poesia in primis, rimasero stretti ed evidenti anche nel periodo della tua attività pittorica…
Sì, certo. La mia prima mostra personale, alla Libreria Einaudi in via Veneto, fu un “Omaggio a Dylan Thomas” e fu del maggio 1966, l’anno dopo l’uscita della mia traduzione. Anche la seconda mostra, nel ‘70, mista di dipinti su tela e monotipi su carta, tenuta sempre a Roma alla Galleria “Il Segno” di Angelica De Chirico non era esente da suggestioni extra-pittoriche in senso stretto. Lo dichiarai nell’auto-presentazione che scrissi in quella occasione e che, per quanto riguarda i monotipi, fu accompagnata da uno scritto di Hans Richter . 

Facciamo un passo indietro. Vuoi raccontarci altro a proposito della tua primissima iniziazione allo studio della pittura che, mi pare, fu alle origini altrettanto precoce di quella allo studio letterario, se non di più.
Durante la scuola media, il preside della scuola, che era un pittore, andato in pensione, scelse i più bravi in disegno e due volte la settimana ci dava nel pomeriggio lezioni di pittura. Lì imparai l'abc, la grammatica del disegno e della pittura, come si impastano i colori, come si prepara una tela, e come si dipinge. Ci faceva copiare dal vero, ci iniziò alla pittura a olio, ci faceva riprodurre fotografie, cartoline, paesaggi... Poi, nel primo dopoguerra, frequentai anche un corso di nudo al Circolo Artistico Internazionale di Via Margutta. Ma i tempi erano cambiati e l’astrattismo imperava imponendo altri modi. Ricordo che ricominciai usando pennelli cinesi su grandi fogli con inchiostri di china colorati. L'ultima poesia la scrissi per il mio quarantesimo compleanno e dopo allora niente più, per vent’anni. La pittura d’altronde mi dava soddisfazioni, era un vero lavoro, feci altre mostre personali, partecipai a collettive, ebbi a Livorno un gallerista, Giraldi, che mi acquistava due quadri al mese. Mi esprimevo con grande libertà; ai monotipi seguì un periodo di pittura geometrizzante incentrato sull’indagine della casualità, quindi quello dei “fragmenta labyrinthi”; infine, abbandonate tele e pennelli, le mie due ultime due personali, a Bologna e a Bari, furono di immagini fotografiche allegoriche. La letteratura, cacciata dalla porta, rientrava dalla finestra… 


E gli altri artisti, gli altri pittori? Chi ti ha maggiormente influenzato, in chi ti sei riconosciuto? Chi frequentavi? Ti fa piacere ricordarcelo?
Gli anni sessanta, come sa chi li ha vissuti, furono a Roma anni di grande fermento intellettuale e, fra gli artisti, di grande comunicativa e apertura. Mio amico e per certi aspetti maestro fu Piero Dorazio, ci vedevamo spessissimo, prima che si trasferisse a Todi, nel suo studio alla Valchetta Cartoni, o, insieme ad altri, Perilli, Turcato, nella mitica stamperia di Renzo e Flavia Romero, a due passi da Piazza del Popolo. Ma prima ancora, negli anni ’50, avevo stretti legami con Armando Buratti e il gruppo di “Portonaccio”. Gli anni passano veloci. Quanto a influssi veri e propri, ma parlerei piuttosto di suggestioni, credo che fossero i grandi del passato, Klee, in primo luogo, e Kandinskj, ma in qualche modo anche Mondrian e Malevic a darmene di più. Tuttavia, anche per il doppio binario con la letteratura e la poesia, il mio fu un percorso tutto sommato piuttosto autonomo e solitario. 

Quanto al tuo nome in pittura: perché Ario, anziché Ariodante Marianni per intero?
Forse per rimarcare la diversità dal lavoro letterario. Ario è il nome con cui mi chiamano gli amici. Cominciai a usarlo nella seconda mostra personale alla galleria “Il segno” di Roma, mostra di transizione perché comprendeva sia monotipi che tele con composizioni geometrizzanti ricavate col metodo del “coup de dès”, come spiegavo nell’autopresentazione. Aggiungo che da un “quadro – madre” così composto ritagliavo zone che diventavano a loro volta composizioni autonome. 

Recentemente, dopo tanti anni di “ritiro” letterario, sono state riproposti in mostra i tuoi monotipi. Come li hai rivisti? Che significato hanno assunto ora per te?
E’ alla Fondazione Marazza di Borgomanero e anche a te che devo questa “riesumazione”, e, in quanto sua artefice, hai potuto davvero toccare con mano con che entusiasmo io ne abbia seguito le fasi e l’attuazione. E’ stata la riscoperta di un io fecondo e dimenticato. Con tutto il distacco che dà il lungo tempo passato, diciamo che mi sono guardato indietro e mi sono compiaciuto. 

PITTURA E POESIA Intervista di Eleonora Bellini ad Ariodante Marianni da Pagina Picta, 2005