venerdì 30 dicembre 2016

"Il cardo chi ha temuto": un saggio augurio in versi

Il cardo chi ha temuto
per diventare spinoso,

mentre si è fatto un fiore
come una bolla di sapone
l'allegro tarassaco?

Come evolve l'uomo sotto
la spinta delle idee?

Non bisogna stancarsi
di predicare la gentilezza.

La poesia, tra le numerose inedite di Ariodante Marianni, fu pubblicata postuma sulla rivista CAPOVERSO nel secondo semestre 2012.

Ario, monotipo su carta, 1966 circa.

sabato 11 giugno 2016

Sinapsi della mente, tre poesie

Sul numero 244 della rivista FERMENTI, pubblicata a Roma dall'omonima casa editrice e diretta da Velio Carratoni, possiamo leggere tre poesie inedite di Ariodante Marianni. 
Essenziali e profonde, icastiche e filosofiche, queste liriche muovono da interrogativi esistenziali assoluti a cui non offrono risposte se non quelle connaturate al pensiero del poeta: incessante meditare, discreta ironia, immortalità dell'amore.  

domenica 17 aprile 2016

La responsabilità personale

"La responsabilità personale" è una delle nove Lettere oraziane di Ariodante Marianni, poesie o meglio poemetti civili di raro acume e di profondo pensiero. E' indirizzata a Nelo Risi, per molti anni amico del poeta e "narra" di una discussione pre-elettorale" e della volontà del poeta di compiere, pur con amara consapevolezza, tutto il proprio dovere di cittadino.
 
Nelo, ci chiamano ai comizi un'altra
volta; i necrofori approntano le urne
e già nell'aria è il tanfo dei cadaveri
delle nostre speranze...
                                     Si chiacchierava
di bassa politica: scippi, baratterie,
lottizzazioni, mafie all'interno dei partiti,
e gli altri marchingegni del mestiere
di chi governa, in questo scorcio di millennio,
le nostre sorti e la rabbia impotente,
quando uno (il tipico paracattolico apostata
che ben conosci) all'improvviso,
arcigno e accusatorio ci imbavaglia:
"inutile discutere: siamo colpevoli tutti!".
Gli altri annuivano convinti. Ma io sentivo,
dallo stanzino buio, un ragazzino protestare;
batteva i piedi e strillava: "non è vero!
io non sono stato!" e da sotto la porta
faceva scivolare un foglietto con scritto:
uno, barra, quarantatremilioni.
 
- Specula? froda il fisco? intasca
tangenti? Dice: "lo fanno tutti".
Ti soffia il posto? ti sorpassa da destra?
Calmo, ti spiega: "la vita è una jungla!".
Traffica armi? Le risposta è pronta;
ed è un altro bavaglio, anche più stretto.
Così, tra chi fa mostra di percuotersi il petto
e chi sceglie per legge il malcostume,
il terzo gode (si fa per dire) e assume
a Padre e Capro l'impalpabile ente,
onnipossente per definizione,
che un tempo usavano chiamare l'Essere,
e adesso ha il nome del suo laico vago
participio passato. Già, lo stato;
anzi: lo Stato (la maiuscola è d'obbligo) -
"Ma è la solita solfa!, fece un altro,
"la questione morale! Via, ragazzi:
lo sappiamo ormai tutti:
in politica è solo un deterrente
per ricattare!". Si scatenò la bagarre,
ciascuno voleva dire la sua:
parlavano urlando, tutti insieme,
tra una boccata e l'altra di sigaretta,
agitando i bicchieri come se fossero bombe
(mi venne in mente Leopardi, i suoi Caffè
napoletani). Qualcuno, intanto, per distrarci
aveva acceso la radio. Una voce nasale,
professorale, un dotto neuro-filosofo,
parlava delle utopie: "dai desideri nasce
la speranza, diceva, e questa genera la fede.
Si desidera il meglio e lo si crede possibile.
Ma tutto avviene in un solo emisfero,
l'altro è estraneo al processo.
La Storia cammina come può:
a due, a tre, a quattro zampe, secondo
le stagioni, come insegnava la Sfinge..."
fu un momento di stanca. Una ragazza
azzardò a mezza voce: "a me il problema
sembra più vasto e generale: riguarda
il senso civico, la responsabilità personale".
Le rispose uno scoppio d'allegria:
l'inattesa catarsi. In quattro o cinque,
le fecero circolo, cantando:
 
Tapina ancora non sai
che la morale borghese
scagiona l'individuo
per non turbare il paese?
 
Tagliai la corda. mentre varcavo la porta,
girai la testa: uno ancora rideva,
uno, mezzo assonnato, sbadigliava.
Dallo stanzino buio, il ragazzino
tempestava di pugni l'uscio chiuso:
"maledetti!", strillava, "vi odio tutti,
qui si soffoca, lasciatemi uscire!"
 
Fra tre giorni si vota. Voterò "contro",
come sempre, deglutendo sorsi di rabbia
impotente. Andrò al seggio serio e compunto,
prenderò il mio foglietto; traccerò il segno
senza esitare: la mia quarantatré-
milionesima parte di volontà popolare.
 
Roma, 11 giugno 1987
 
 
 
 
 

sabato 26 marzo 2016

Il messaggio vibrava già nel sonno


Ariodante Marianni coltivò la poesia, con riserbo e acribia estremi, fino alla soglia del nulla. L'aveva scoperta alla scuola elementare, grazie a un maestro attento, e l'aveva divorata come lettore durante tutta l'adolescenza e la prima giovinezza, leggendo i classici italiani, poesia epica compresa, anche quella di autori ai nostri giorni quasi dimenticati, come il Tassoni. E l'Ariosto gli fu caro per tutta la vita, così come il Belli, che spesso recitava a memoria. Convisse per molti anni con i poeti anglosassoni, che amò e tradusse in modo esemplare: William Carlos Williams, Dylan Thomas, Walt Withman, William Butler Yeats.
 
Marianni sul set di "Il giovane dottor Freud" con C. Gravina
Esercizio coi pennelli cinesi, 1962
 
Scrisse molte poesie, pubblicandole però solo nell'ultimo quarto della sua vita, spesa in molteplici attività, sempre con acuta saggezza e disincantata gioia.
Lo ricordiamo qui, nel nono anniversario dalla morte, con alcuni versi tratti dal libro Un amore senile e altre spezie:
 
Il messaggio vibrava già nel sonno,
nelle veglie del sonno, dal suo faro
sulle acque scure in attesa dell'alba,
 
poi l'alba è apparsa disegnando il borgo,
festiva, gaia, scampanando
su vigne ed uliveti a braccia aperte,
 
trepidante vigilia di un incontro.
 
(A. Marianni, Un amore senile e altre spezie, Book 2008, p. 44)
 

martedì 16 febbraio 2016

"Rispetto del verso e della strofa"


"Nel mio approccio al tradurre, mi sono dovuto liberare anzitutto di alcuni preconcetti, il primo dei quali è la consunta tesi della intraducibilità della poesia, la quale deriva dal mito della traduzione perfetta; cioè dall'idea utopistica che si possa riprodurre in altra lingua, come per clonazione, il testo originale. Volenti o nolenti ne siamo tutti in qualche modo contagiati e condizionati. Scriveva Dante:

E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta la dolcezza e armonia.

Credo che il punto sia proprio qui: l'affermazione dantesca (come altre analoghe, di autori anche recenti) contiene una verità talmente evidente che avrebbe dovuto far desistere da tante discussioni e tanti inutili tentativi e frustrazioni. E poiché il testo tradotto, per quanti sforzi si facciano, risulterà sempre e comunque un testo autre, ne consegue il legittimo sospetto che la vexata quaestio del tradurre, così ricca di "se" e di "distinguo", sia anche infarcita di molti falsi problemi che nascono e si riproducono in un puro ambito speculativo: i veri problemi essendo quelli che si presentano "sul campo", brano per brano, parola per parola, nel faticoso lavoro di scavo, selezione, e politura del materiale.

Ma nell'intraprendere una traduzione poetica si presentano anche tentazioni che spesso è difficile soffocare. La più perniciosa è quella che induce a mettersi in competizione con l'autore anziché al servizio suo e del lettore. Altra tentazione, assai forte, subdola e ardua da allontanare, nasce dal desiderio di riprodurre la musica dell'originale, cioè i metri e i ritmi, quando non addirittura le rime. Un'altra ancora, che riguarda in special modo le traduzioni di autori del passato, è rappresentata dall'ambizione di riprodurre l'aura storica dell'originale. Rammento una frase di Giuseppe Pontiggia, in un suo articolo sul Corriere della sera (19 novembre 1989), che varrebbe la pena di meditare: "I classici italiani - egli afferma - sono più popolari all'estero perché vengono tradotti e quindi resi accessibili in una lingua moderna. Quello che il Boccaccio perde in espressività lo acquista in leggibilità".

Mi sono avventurato in questa lunga premessa al solo scopo d'indicare quali siano i presupposti a cui mi affido nell'accingermi al lavoro di traduzione. L'interpretazione del testo è naturalmente il nodo centrale e investe problemi di critica esegetica, preliminari a ogni trasferimento dall'una all'altra lingua. Le maggiori o minori difficoltà che possono incontrarsi variano, come è intuibile, da autore ad autore e da poesia a poesia e sono del genere più vario. Il ricettario da me usato è dei più semplici, e dubito fortemente che valga la pena di insistervi troppo: letture e riletture del testo; versione pedissequa, parola per parola, con annotazione di tutti i possibili significati e sinonimi; e infine paziente elaborazione del materiale ricavato come se si trattasse di materiale mio proprio, cercando le mot juste senza aggiungere né togliere nulla ed evitando le parafrasi, salvo in casi di assoluta necessità. Uniche regole a cui mi sottopongo sono il rispetto del verso e della strofa quali elementi strutturali del componimento, in cui si cala il "pensiero" dell'autore, e di fornire alla traduzione un andamento ritmico tale da dare al lettore la sensazione immediata che ciò che sta leggendo è un testo di poesia.

So per amara esperienza che la resa finale, salvo rari e direi fortunati casi, non ripaga mai interamente tutto il lavoro impiegato, e che una cosa è tradurre una singola lirica, altra cosa tradurre un poema o un intero libro di versi. Osservo infine che la scelta determinante è forse quella compiuta a priori nell'atto in cui si decide liberamente di tradurre quel tale autore o quel tale testo, perché lascia presupporre consuetudini a lungo protratte, affinità elettive studiosamente coltivate o, per converso, fulmineo innamoramento e desiderio d'appropriazione dell'oggetto amato, portatore talvolta di mondi alieni dal nostro che tuttavia oscuramente ci attraggono. Anche se ciò non è sufficiente a garantire la bontà del risultato, ne è forse una delle condizioni necessarie. Che per tradurre poesia occorra un poeta è un luogo comune che non si discute; così come per tradurre narrativa occorre un narratore e per tradurre i testi d'una qualsiasi scienza necessitano esperti della materia trattata: una buona traduzione non è solo questione di lingue a confronto è anche, e soprattutto, questione di linguaggi."
 
Stralcio dalla Prolusione di Ariodante Marianni al PREMIO MONSELICE 2006