“Dipingendo avevo in mente le cose più disparate: dai miti solari di Ra e di Mitra alla guerra nel Vietnam; le più astratte coppie di opposti, buio-luce, odio-amore, pace-guerra; tutto ciò che è in conflitto, dentro e fuori di noi. Attualmente lavoro a un tema che mi assilla da due anni, denso di suggestioni e di sviluppi e che nel nostro tempo ha interessato più di un artista, da Joyce a Butor, a Sanguineti, a Klee, a Ricasso: il tema del labirinto. Esso formerà l’oggetto della mia prossima mostra. Il fatto che io ne riproponga l’immagine in frammenti (l’atto del suo disgregarsi e del suo ricomporsi) come immagine mitica del nostro tempo, ne costituisce la novità principale e il significato più palese.”
Così presentava la sua opera Ariodante Marianni nella scheda a lui dedicata del catalogo dell’esposizione “Da dove veniamo chi siamo dove andiamo. Il pubblico e l’arte contemporanea”, tenutasi ad Altopascio nell’Antica Magione dei Cavalieri del Tau dal 22 luglio al 2 agosto 1973. Nel testo di presentazione dell’incontro artistico a più voci la curatrice, Lara Vinca Masini, poneva Ario tra gli artisti che intendevano “la pittura come espressione di un linguaggio, non come distinzione categoriale”.
La visione novecentesca del mito, era ben presente a Marianni, impegnato in una ricerca pittorica che svelasse il sé e l’altro, il presente e il passato, l’agire della volontà degli uomini e il supremo volere del caso, l’imperscrutabilità del caos e l’ordinato porsi delle strutture e delle scienze opera dell’ingegno umano, dalle raffinate elaborazioni architettoniche dei labirinti rinascimentali alle implicazioni matematiche della costruzione e della risoluzione dei labirinti.
Quando decide di essere pronto per esprimere artisticamente il suo confrontarsi col mito antico e la sua storia, Ario non sceglie l’incastro perfetto e il glorioso percorso che conduce a superare, risolvere, o vincere l’enigma che quell’elaborata costruzione pone a chiunque vi si addentri. Non lo sceglie perché, se la ricerca è continua e incalzante, la risposta è incerta e mai definitiva: ogni domanda incalza la precedente, ogni sentiero sfocia in un altro sentiero o in un bivio, pone un’alternativa, sollecita una scelta.
Il labirinto di Ario è ridotto in frammenti, spezzato, distrutto. L’opera dell’ingegno non ha resistito al male, è a pezzi, crollata, perché il male già prigioniero, ma solo provvisoriamente prigioniero, è dilagato nel mondo. Sono gli anni in cui l’Italia si è ormai ripresa dalle distruzioni della guerra, in cui le città bombardate sono state ricostruite, e tuttavia non è indolore la consapevolezza delle innumerevoli vittime, dei loro nomi fragili o perduti, dei loro volti già impalliditi, forse scordati. Nelle mura delle città e delle case in frantumi si specchia il dolore degli esseri umani, dolore del pensiero e delle sue contraddizioni, interrogativo sul significato dell’esistere di ciascuno e di tutti, sull’esperienza dell’esistenza dell’aberrazione e del mostro nella storia umana. Le crepe e i frammenti delle mura cadute e sparpagliate nella città sono, a un tempo, le spaccature prodotte nel mondo da un processo storico malato e quelle inflitte alle vicende personali degli uomini in esso coinvolti: la costruzione di un io saldo e consapevole di sé può mitigare la disperazione e le paure dell’esistenza. Ma il processo è continuo, infinito finché il cuore batte, non si può arrestare, pena un nuovo crollo, la ricaduta in frantumi, l’esclusione sociale.
L'articolo per intero si legge su FERMENTI n.243/2015 e al link Discussione: Ario: Fragmenta Labyrinthi - Academia.edu