mercoledì 29 maggio 2013

Ciao, Ario! di Paride Mercurio

Caro Ario,
quest’anno mi è stato affidato (e tu sai da chi...) l’onere, che per me è soprattutto un onore, di ricordare la tua illustre figura.
Ti confesso che non amo particolarmente le commemorazioni pubbliche, men che meno i coccodrilli. Parlare poi coram populo di persone a cui sono legato da sentimenti d’affetto mi riesce assai difficile: si rischia sempre di rimanere invischiati nelle panie della retorica o di cadere vittime di quella che mi piace chiamare la sindrome dell’ultima bugia (com’era buono, com’era bello, quanto era santo...).
Ho pensato allora di ricordarti agli altri scrivendoti una lettera: del resto i toni colloquiali e l’ironia sono peculiarità che appartengono alla tua opera, o mi sbaglio?
Comincerò quindi , come si conviene, dalle notizie biografiche. Nasci a Napoli, nei primi anni Venti del secolo scorso, per caso, nel senso che la tua famiglia è romana e si è trasferita all’ombra del Vesuvio per motivi di lavoro. Credo non ti sia dispiaciuto vedere la luce accarezzato dalla brezza del Tirreno, che proprio lì custodisce le spoglie del poeta Virgilio.
Ancora bambino, dopo la scomparsa di tuo padre, torni nell’Urbe dove rimani fino all’età matura; quindi te ne vai a Bracciano e, in vecchiaia, decidi, fortunatamente, di venire a Borgo Ticino.
Qui a Borgo ti vedo per la prima volta nel marzo del 2004. È una giornata strana che si rasserena verso sera, dopo una sorprendente nevicata. E di sera appunto ci conosciamo in biblioteca: tu presenti un libro di Eleonora, Fuori dal nido, Paolo, un mio caro amico, presenta la mia seconda raccolta di poesie, Anima memor. Scambiamo due parole alla fine, ma la mia timidezza mi impedisce di approfondire la reciproca conoscenza, nonostante la tua affabilità.
Non ho ancora parlato della tua attività artistica che spazia dalla letteratura alla pittura e quindi faccio un passo indietro. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento ti fai chiamare Ario e sei protagonista della stagione dell’Astrattismo romano. Diventi segretario di Ungaretti, traduci i poeti anglofoni: gli americani Whitman, E. Dickinson e W.C. Williams, l’inglese W. Auden, il gallese Dylan Thomas e, soprattutto, tutte le opere in versi dell’irlandese William Butler Yeats per i Meridiani Mondadori, impresa che ti costerà vent’anni di lavoro.
E che dire delle tue amicizie? Ungaretti, come detto, ma anche Calvino, Solmi, Luzi, Nelo Risi e molti altri personaggi illustri della nostra cultura. Ah, dimenticavo: sei stato anche nell’ufficio stampa del Festival dei Due Mondi di Spoleto, ideato da Giancarlo Menotti, che fece fortuna negli States, ma che nacque a un passo dal Ceresio, a Cadegliano Viconago, dove da anni vivono i miei genitori (e questa è una cosa di cui ti volevo parlare, ma non ne ho avuto il tempo...).
Il nostro secondo incontro, manco a dirlo, avviene ancora in biblioteca a Borgo: è la fine del 2006 o l’inizio del 2007. Eleonora ci presenta: ti scegliamo, con entusiasmo, come presidente della giuria della II edizione del Premio Cerruti.
A febbraio ci ritroviamo da voi con tutta la giuria: è un martedì grasso bellissimo, una serata serena e dolce, durante la quale, mentre si discute per scegliere i vincitori del concorso, finalmente riesco a scoprirti come uomo. Le distanze all’improvviso si accorciano, i timori svaniscono e ti vedo nella grandezza del tuo essere. La tua umiltà e la tua passione mi colpiscono, mi abbagliano così come la tua voce calma, profonda.
Il 3 marzo è in programma un’altra presentazione di libri. Il mio amico Paolo, per impegni di lavoro, mi comunica solo qualche giorno prima che non potrà esserci e così rimango senza presentatore per il mio Archeolemmi. Tu lo vieni a sapere e ti offri di aiutarmi senza titubanze, io non riesco a crederci: sei anche generoso. Quel sabato di marzo pieno di sole non lo dimenticherò mai. La tua presentazione del mio libro fa vibrare tutte le corde del mio cuore. Il mio affetto per te aumenta in maniera esponenziale, perché ti sento molto vicino. Quello che mi colpisce è l’energia che ti pervade: sei vivo e vitale, appassionato e lucido. Prima di allora credevo che i tuoi versi contro Ovidio (denigratore dell’amore senile) fossero di maniera, una citazione colta per esperti; ora comprendo che non è così: tu ami, e lo fai con tutto te stesso, come è giusto che sia, come comanda amore, come fa chiunque sia veramente e profondamente innamorato.
Mi elogi pubblicamente, dopo aver precisato che sono cresciuto dal punto di vista letterario dal 2004. Sono felice e convinto che la tua presenza nella mia vita sia un dono preziosissimo.
Ci rivediamo -nei giorni seguenti- un paio di volte ed è sempre una scoperta: ti faccio mille domande a cui tu rispondi sempre sereno, con un entusiasmo che mi travolge.
Arriva l’ultima settimana di marzo, sono in pausa pranzo, un messaggio fa trillare sinistramente il mio cellulare: Ario se n’è andato...Mi ronzano le orecchie, tremo come una foglia, ma Saffo non c’entra: ho perso un amico, un maestro, un uomo vero. Dolore, rabbia, impotenza. Ma la falce che tutte l’erbe pareggia non risparmia nessuno, nemmeno te, dolce principe. Finisco qui, non voglio ricordare oltre quelle ore.
Di te restano i quadri, le traduzioni, le poesie, i contributi critici, le foto e le immagini televisive: un patrimonio culturale enorme e prezioso. A noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerti e amarti rimane molto di più: il tepore avvolgente di un’anima grande che non ci lascerà mai.
Ario, è tempo che mi congedi; salutandoti ti dico che, quando questo mio strano ricordo capiterà nelle mani di qualche lettore (presumibilmente il giorno della premiazione dei vincitori della V edizione del Premio Cerruti e della III del premio a te dedicato), io sarò appena ritornato dal Verano, non prima di aver lasciato, dinanzi alle tue spoglie, un fiore fresco ed un caldo sorriso: li hai graditi?
Stammi bene, amico mio!

Tuo Paride

Borgo Ticino, 3 marzo 2010

Dal quaderno del Premio Letterario Nazionale
"Antonio Cerruti - Ariodante Marianni"
2010

lunedì 20 maggio 2013

Ario e Vittorio. Cartoline da un'amicizia, di Giulio Martinoli

Ariodante Marianni spesso mi raccontava della sua amicizia con Vittorio Sereni: un’amicizia assoluta, più che fraterna, di lungo periodo. Eppure Sereni, aggiungeva sempre Ariodante, non sapeva nulla o quasi nulla della sua attività poetica. Sereni lo conosceva come pittore e come fine traduttore, ma non come poeta. Il pudore che aveva tanto a lungo trattenuto Marianni dall’esporsi lo aveva frenato anche nei confronti dell’amico suo più caro. Tra i due poeti i punti di contatto sono più numerosi di quanto possa sembrare a prima vista: anzitutto la comune scelta di un linguaggio certo innovativo ma anche piano e quasi familiare, secondo una linea che parte da Pascoli e Gozzano (proprio su quest’ultimo verteva la tesi di laurea di Sereni) e arriva sino a Caproni e Pasolini, comprendendo anche i nostri due; ma spesso anche i temi e le atmosfere sono convergenti, benché Marianni, a mio parere, sia più ottimista e filosofo rispetto all’amico.
Ecco una breve poesia di Sereni (Terrazza):

Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca:
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira sene va.
Il soliloquio dell’insonne
quel credulo appagante almanaccare,
proiezione dei propri desideri
ed esorcismo dall’annientamento,
svapora come il fiato
in un freddo mattino come tenta
di farsi verbo,
come s’incarna in simbolo o metafora,
mosca afferrata al volo
che aperto il palmo è sparita.

Sarebbe interessante vedere pubblicato l’epistolario tra i due amici, per meglio comprendere che cosa li accomunasse e li rendesse quasi complementari tra loro. Ho letto alcune delle lettere di Marianni (pare che quelle di Sereni a lui non siano al momento disponibili): mi sono parse bellissime, piene di affetto, di serena saggezza, di umana comprensione.
All’amico appena morto, Marianni dedicò una delle sue opere forse più alte (Requiem Laico per Vittorio Sereni), in cui lo strazio per la perdita dapprima tracima in rabbia impotente (deglutivo di rabbia, come un uomo tradito,/ con un bisogno assurdo di coprirti d’insulti), per poi gradualmente stemperarsi nell’accettazione dell’addio:

[…] Ho celebrato
Un dolore che è mio e di tutti (tu l’hai
provato), quando accade il delitto;
ma questo devo testimoniarlo: eri un amico
fedele, e io non avevo misurato
il bene che ti volevo. Oh, riposa sereno
nel purgatorio della mia memoria, con tutti
quelli che ho amato e che ho perduto. Amen.


© Giulio Martinoli. Testo scrittoin occasione della cerimonia conclusiva del Premio « Cerruti – Marianni » 2013