Cinque
metri per tre, neon bianco, luce fredda.
Quasi
tutto si spense.
Guardai
la città, nel silenzio delle sei.
Nella
controluce del pavimento mappe, a mio giudizio,
avrebbero
dato lavoro ai cartografi.
Se
ne stavano sulla linea di confine luoghi,
ed
eserciti, e formicai.
L’umanità,
nella sua esplicazione.
C’era
l’ ingegneria di un ponte, un passaggio a livello,
un
fumante camino, un orologio battente nella nebbia,
un
rumore di scarpe, un bar aperto dalle cinque del mattino.
C’era
il sonno, e l’abbandono del letto,
il
suono amico dei bicchieri, la fame della stanchezza,
lo
strano segno della malattia, la tosse profetica della morte leggera.
C’era
la desolazione, e la densità, il sacrificio e il pensiero,
la
speranza, prestata alle macchine.
Ovunque
la traccia polverosa d’una pietra miliare
v’era
a dire qualcosa. E quasi tutto si spense.
Non
tutto stamani era miseria al mondo.
Dagli
occhi allo stelo, dal creato alla ringhiera,
una
voce indovina cantava nuda
l’abbandono
delle proprie ossa nella stanchezza del mento.
Non
tutto era cemento,
non
tutto cinque metri per tre, neon bianco, luce fredda.
Una
croce a cena era comparsa, prima, nella sera.
Persino
Dio, che ritornava a casa.
Fu
allora, che quasi tutto il dolore si spense,
poiché
non tutto, era miseria al mondo.
Versi lunghi, dal tono narrativo, dipingono una città desolata e confusa, brulicante di dolore. Fino ai versi finali in cui il dolore si placa nella speranza.